Mentre in Italia si spinge per la scorta armata sui mercantili italiani. Il fenomeno della pirateria marittima al largo della Somalia è in costante crescita interessando un’area di 5,5 milioni di miglia nautiche quadrate. Un’intera area del mare del Corno D’Africa è quindi ormai caduta sotto la minaccia armata dei pirati somali. Pirati che sembrano spadroneggiare indisturbati in queste acque visti i risultati da loro raggiunti. Tutto ciò ne ha fatto una vera e propria minaccia alla navigazione tra Europa e Asia. Un rotta per dove passa la metà dei traffici commerciali, a mezzo di container, e il 70 per cento del traffico di petrolio mondiali. Un mare che riveste importanza anche per le telecomunicazioni. Attraverso esso vi passa infatti, un cavo sottomarino di 17mila km in fibra ottica che collega Paesi come Sudafrica, Tanzania, Kenya, Uganda e Mozambico con l’Europa e l’Asia. Il fenomeno della pirateria marittima ha fatto registrare in tutto il mondo una crescita esponenziale degli attacchi passati dai 276 del 2005 ai 445 nel 2010. Un trend ancora in salita se si considera che nel primo trimestre del 2011 gli attacchi sono stati già 142. Novantasette dei quali hanno interessato il mare della Somalia, contro i 67 attacchi dello stesso periodo del 2010, con 18 navi cadute nelle mani dei predoni del mare. Dati che dimostrano quanto il fenomeno sia aumentato esponenzialmente e lo sia proprio nel mare del Corno D’Africa. Impossibile quantificare quanti marittimi, membri dell'equipaggio delle navi catturate siano trattenuti in ostaggio dai pirati somali. Di certo sono alcune centinaia, mentre le navi catturate sono almeno una ventina. Nel corso degli arrembaggi sette marittimi sono rimasti uccisi, mentre trentaquattro feriti. Si registra anche un incremento della somma di denaro richiesta come riscatto. Questa è aumentata mediamente di 36 volte rispetto ai 150mila dollari che venivano richiesti nel 2005. Si stima che nel 2010 siano stati pagati almeno 238 milioni di dollari come riscatti e sono state 17 le navi ‘riscattate’. La somma pagata come riscatto mediamente è stata di 5,1 milioni di dollari. Mentre nel 2011, sempre nei primi tre mesi, sono state ‘riscattate’ già 11 navi. La somma pagata come riscatto mediamente è stata di 6,2 milioni dollari. Tutto questo ha galvanizzato i predoni del mare che vedono oltre che campo libero anche crescere i loro profitti . Tra le navi catturate dai pirati somali due sono italiane, la petroliera ‘Savina Caylin’ e la motonave ‘Rosalia D’Amato’. La prima catturata l’8 febbraio scorso e la seconda il 21 aprile successivo. In mano ai pirati somali, trattenuti in ostaggio, oltre alle due barche italiane, anche 11 marittimi italiani, 5 sulla petroliera e 6 sulla motonave. Un fatto questo che ha portato in Italia a far nascere una discussione scaturita dalla convinzione che i mercantili italiani, che solcano le acque del mare dei pirati, godano di una forte carenza di sicurezza. Una convinzione che ha portato molti ad affermare che tutto ciò rende molto facile il ‘lavoro’ ai predoni del mare. Un mercantile senza difese viene facilmente abbordato dai pirati somali che, dopo essersi avvicinati con barchini veloci con a bordo max 5 persone, accostano e prendono la nave senza colpo ferire. Nave che poi, è condotta, insieme al suo equipaggio, nei loro porti-covi lungo la costa del Puntland, regione del Nord est della Somalia autoproclamatosi indipendente dal Paese africano nel marzo del '91. Il principale covo pirata è quello di Eyl, roccaforte della moderna Tortuga dei nuovi filibustieri. Da qui poi, i pirati somali chiedono un riscatto per il rilascio di nave e uomini. Del riscatto al pirata viene data solo una parte, una sorta di commissione sul sequestro. Questo perché dopo il sequestro entrano in gioco organizzazioni criminali a capo delle quali vi sono ‘coletti bianchi’. Organizzazioni che si occupano delle trattative, e una volta incassato il denaro, si occupano di ripulirlo e riciclarlo attraverso società di comodo con sede a Dubai, negli Emirati e a Nairobi in Kenya. A questo punto viene spontaneo chiedersi perché non si cerca di fermare il riciclaggio del denaro proveniente dai sequestri? Inoltre, pur conoscendo il luogo esatto dove vengono condotte navi e uomini, fino ad oggi nessuno è mai intervenuto militarmente per porre fine a tutto questo. La principale spiegazione data è la presenza degli ostaggi. Uomini che in caso di attacco da parte di forze militari internazionali, potrebbero trasformarsi in scudi umani o addirittura essere uccisi per ritorsione. Armare un mercantile però, vuol dire più o meno la stessa cosa. E’ vero che, al fine di prevenire, sulle rotte a rischio, i gravi pericoli derivanti dalla pirateria marittima, gli armatori francesi, spagnoli, inglesi, belgi, statunitensi, tanzanesi, sudafricani hanno dovuto imbarcare sulle proprie navi uomini armati, sia privati sia militari della marina. E’ vero che la legislatura in Italia non prevede alcun strumento legislativo che consenta alle navi, battenti bandiera italiana, di organizzarsi allo stesso modo. Ed è sempre vero che il Parlamento italiano sta per adottare dei provvedimenti per colmare questo vuoto e anche per evitare che gli armatori italiani cambino bandiera, per ottenere maggiore tutela e sicurezza s

otto altre di Paesi più ‘attenti’ al fenomeno. Non è detto che questo accorgimento conduca alla salvaguardia e protezione dei lavoratori del mare a bordo di questi mercantili anzi, potrebbe ulteriormente far aumentare i rischi. Il provvedimento potrebbe essere anche eccessivo in quanto di recente è emerso che i mercantili italiani siano esposti alle minacce di sequestro da parte dei pirati somali anche per negligenze e omissioni. Risulta infatti, che la commissione europea abbia segnalato che alcune unità mercantili italiane, che attraversano le aree a rischio pirateria, non si attengono, come dovuto, alle raccomandazioni riportate nelle best management pract/ces vers/on 3, consultabili al link: www.mschoa.org/bmp3/documents/bmp3%20finallow.pdf .In particolare, sembra che mercantili italiani, secondo quanto si legge nel documento Ue, omettano di comunicare sul http://www.mschoa.org/Links/Pages/UKMTO.aspx, come da procedura, i dati del viaggio nell'area a rischio e omettano di riportare via telefono e via email i dettagli del viaggio all'UMKTO. Si tratta dell’organismo che funge da punto di contatto primario per le navi mercantili e di collegamento con le forze navali militari internazionali che operano nel mare dei pirati e che ha sede a Dubai negli Emirati Uniti e che gestisce il ‘Reportin Scheme’. Di fatto viene omessa la registrazione del transito della nave nel mare dei pirati e quindi, la nave si autoesclude dalla protezione navale militare che è in atto nelle acque infestate dai pirati. Cosa questa che, sempre nel documento Ue, è fortemente evidenziata nel punto in cui si legge: “…al gravissimo pericolo cui il mercantile stesso si sottopone nell'attraversare le aree a rischio pirateria senza alcuna possibilità di assistenza”. Un fatto questo inspiegabile, ma che di certo evidenzia che ci sono anche altre ragioni che espongono il naviglio italiano al rischio sequestro e che spiega come finora non sempre gli assalti siano stati sventati. A questo punto la domanda nasce spontanea: “la ‘Savian Caylin’ e la ‘Rosolia D’Amato’erano registrate? Per cui appare evidente che prima di ricorrere ad rimedi molto estremi cercare di sfruttare altri che invece, in molti casi si sono dimostrati risolutivi. Il 5 maggio scorso è fallito, nel Golfo di Aden, il tentativo di sequestro del mercantile italiano 'Ital Glamour'. Contro la nave sono stati esplosi, dai pirati somali, numerosi colpi di armi da fuoco ed alcuni razzi quando il mercantile ha adottato manovre evasive pere sfuggire all’arrembaggio. In suo soccorso è intervenuta la Fregata Espero della Marina Militare italiana che dal mese di febbraio opera nell'ambito della missione Ue antipirateria 'Atalanta'. La nave era registrata all'UMKTO. Un episodio quest’ultimo da cui s

i evince anche un altro dato. Se ora i pirati fanno ricorso alle armi, se la nave presa di mira tenta la fuga, è immaginabile cosa possa accadere se sanno che a bordo vi sono uomini armati pronti a sparare loro addosso. Di certo la reazione dei pirati, durante l’attacco, non sarebbe contenuta e porterebbe ad un inasprimento della violenza facendo correre maggiori rischi ai marittimi membri dell’equipaggio del mercantile assaltato. Più volte i pirati somali sono ricorsi anche all’uso di lanciarazzi, Rpg, per fermare le navi assaltate. Se ad essere assaltata è una petroliera cosa succederebbe se la nave fosse colpita da un razzo? Eppure sembra quasi che ci sia dimenticati che esistono delle decisioni prese all’unanimità da assisi internazionali che pongono le premesse giuridiche, per una repressione armata della pirateria marittima. Si tratta delle risoluzione ONU 1814 e 1816 del giugno 2008. La prima autorizza le navi delle marine da guerra di Paesi terzi a entrare nelle acque somale per inseguire i pirati in forza di una volontà di contrasto del fenomeno della pirateria nell'Oceano Indiano e sulla terra ferma. Con la stessa risoluzione è stata istituita una missione navale con il compito di contrastare il fenomeno della pirateria marittima e proteggere le navi in transito nel Golfo di Aden, soprattutto quelle con gli aiuti del Programma Alimentare Mondiale, PAM. Alla missione prendono parte Gran Bretagna, Germania, Grecia, Italia, Turchia e Stati Uniti. Una missione autorizzata per la prima volta il 9 ottobre 2008. La seconda tratta gli atti di pirateria come ‘atti di guerra’ a norma del diritto internazionale. Poi, c’è la risoluzione approvata dal Parlamento europeo nell’ottobre dello stesso anno che nel condannare la pirateria marittima, riconosce la pirateria marittima come un ‘atto criminale’ internazionale. In verità di risoluzioni del CdS ONU ne sono seguite tante altre che autorizzano anche al ricorso alla forza per contrastare il fenomeno della pirateria: la 1838 e la 1846 entrambe del 2008 e, la 1897 del 2009. Da questi pronunciamenti, per contrastare il fenomeno della pirateria marittima, è stata creato un dispositivo anti pirateria del Pentagono e gestito dalla V Flotta USA, il Combined Task Force, Ctf-151. Successivamente sono nate la missione dell’Alleanza Atlantica ‘Ocean Shield’, la missione 'Atalanta' a guida Ue e l’ALINDIEN gestita dal comando delle forze francesi nell’Oceano Indiano. Per tutti il compito è di intervenire militarmente contro i pirati somali. I costi di queste missioni navali militari sono però altissimi molto di più di quanto si paga in riscatti. Cosa questa che porta a pensare, visti i pochi risultati raggiunti, a credere che forse conviene più lasciare fare i pirati che cercarli di contrastarli. I costi totali sostenuti per il contrasto della pirateria nel 2010 sono stati stimati essere stati tra i 7 miliardi e 12 miliardi di dollari. Tale cifra include i riscatti, le indennità di assicurazione, il costo delle operazioni navali militari, i procedimenti giudiziari e i maggiori costi derivanti dalla necessità di trovare nuove rotte per le navi per evitare le zone a rischio, il re-routing. Quest’ultimo, nel 2010, ha avuto un costo di circa 3 miliardi di dollari. Mentre per mantenere una nave da guerra operativa nel mare dei pirati costa, al Paese di appartenenza, circa 100mila dollari al giorno. Pertanto il costo totale delle missioni navali militari internazionali CtF 151, Ocean Shild e Atlanta si aggira intorno ai 3 miliardi di dollari. E' stato stimato che i somali attivamente impegnati in questa attività criminale siano un manipolo di uomini, appena 1200. Di essi un centinaio sono finiti nella rete della forza navale internazionale e poi, sono stati affidati al giudizio e custodia delle autorità del Kenya. Con questo Paese africano infatti, prima gli USA e poi altri Paesi occidentali hanno stipulato un accordo bilaterale che prevede che ogni pirata catturato sia affidato alle autorità giudiziarie kenyane per istituire processi a loro carico. L'apposito tribunale di Mombasa viene finanziato dall'ONU, l'Unione Europea, l'Australia e il Canada. Risulta che i militari delle forze navali internazionali abbiano catturato, dal mese di agosto 2008 e fino a maggio 2010, almeno 1.090 presunti pirati, ma che solo 480 siano ora detenuti o siano stati trasferiti per il procedimento penale in Kenya. Risulta anche che siano stati uccisi almeno 64 pirati e altri 24 siano rimasti feriti. Da ciò si evince che esiste una grave situazione di scollamento tra contrasto e repressione. Il costo della prigionia dei pirati e della persecuzione dei reati nelle corti internazionali è costato, nel solo 2010, almeno 31 milioni di dollari. Un fatto questo che induce molti Paesi a ritenere più conveniente rilasciare i pirati catturati che trattenerli e giudicarli. Ed è proprio il problema di poter processare e detenere i pirati somali, catturati e condannati, ad essere uno dei maggiori afflizioni della comunità internazionale. Purtroppo non tutti i Paesi sono disposti a processare, e se condannati, ad ‘ospitare’ nelle loro carceri i pirati somali accollandosi i relativi costi. Processare i pirati catturati è di pertinenza del Paese dell'imbarcazione attaccata o della nave da guerra intervenuta per sventare l'assalto. Però, possono processare i pirati anche Paesi che abbiano altri legami con il caso, ad esempio la nazionalità di membri dell'equipaggio attaccato. Quasi sempre questi Paesi si rifiutano di processare i pirati o fanno sapere di non poterlo fare nei tempi richiesti. Eppure una valida e meno cara soluzione è sotto gli occhi di tutti. L'estendersi del pericolo ha indotto diversi giuristi e uomini politici di tutto il mondo a lanciare l'idea di creare un apposito Tribunale Penale Internazionale, come quello già operante all'Aja per i crimini di guerra, contro l'umanità e il genocidio. Purtroppo questa idea non ha trovato consensi in tutti i Paesi. Tra quelli non favorevoli spicca inspiegabilmente la stessa Somalia. Non si tiene conto nemmeno del fatto che il 27 aprile del 2010, con un voto unanime, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha chiesto a tutti gli Stati del mondo di ‘criminalizzare la pirateria’ adottando apposite leggi negli ordinamenti nazionali per poter perseguire legalmente i pirati catturati a largo delle coste somale.
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