Cina. Altre condanne a morte per i disordini nello Xinjiang

In Cina comminate altre condanne a morte per i moti interetnici della scorsa estate nella provincia nordoccidentale cinese dello Xinjiang a maggioranza turcofona e musulmana. A giudizio erano, in cinque diversi processi, altre 22 persone. I condannanti a morte sono stati 5 e sono tutti appartenenti all'etnia degli uiguri. Mentre ad altri 5 imputati è stata comminata la pena capitale ma con la condizionale di 2 anni, il che equivale a una probabile commutazione della condanna in ergastolo, ed altri 8 imputati sono stati condannati all'ergastolo e 4 a pene detentive di 10 anni. Con questa sentenza sale a 22 il numero degli uiguri condannati alla pena capitale. Finora sono già state eseguite nove di queste condanne. Otto uiguri ed un esponente della comunità cinese Han sono stati giustiziati lo scorso novembre. L'Associazione degli Uiguri in America presieduta da Rebiya Kadeer condanna queste sentenze affermando che esse sono il frutto di processi politicizzati e mancanti di trasparenza. I media cinesi non hanno riportato la notizia di questi ultimi processi che sono criticati anche dalle organizzazioni per la tutela dei diritti umani che contestano il fatto che non siano aperti al pubblico. Le cifre finora rese disponibili dalle autorità cinesi non sono comunque confermate in quanto il numero delle condanne alla pena capitale e delle esecuzioni sono considerati in Cina segreti di Stato. Le organizzazioni umanitarie hanno comunque stimato che nel 2009, in tutto il Paese asiatico, le esecuzioni sono state almeno 5mila portando la Cina ai vertici come esecuzioni nel mondo. Sale quindi a 63 il numero delle persone finora processate per le violenze interetniche scoppiate lo scorso 5 luglio a Urumqi, capitale dello Xinjiang, quando una manifestazione di uiguri, forte minoranza musulmana, sfociò in scontri con la maggioranza etnica Han degli immigrati cinesi. I morti furono almeno 190, di cui 137 cinesi, e i feriti 1600 secondo le autorità cinesi. Cifre che la comunità uigura in esilio contesta denunciando un bilancio ben più grave arrivando persino a parlare di 800 morti, per lo più uiguri, a seguito della brutale repressione da parte dalla polizia cinese. Purtroppo dai fatti di luglio lo Xinjiang è completamente isolato dal resto del mondo e non è possibile verificare nulla. A sua volta, dopo questi tragici, fatti la comunità cinese dello Xinjiang ha chiesto, in pubbliche manifestazioni, le dimissioni del numero uno del Partito Comunista locale, Wang Lequan, segretario del Partito dal 1994, considerato dagli Han il principale responsabile della loro mancata protezione. Wang però rimane tutt'oggi al suo posto, mentre hanno perso la poltrona Li Zhi, capo del Partito di Urumqi, e il capo della polizia locale, Liu Yaohua. Di fatto la vicenda porta alla ribalta un altro grande problema cinese, quello della stabilità nelle regioni di frontiera che sta esplodendo negli ultimi anni. Prima nel 2008, con la rivolta di Lhasa, la capitale del Tibet, e poi nel 2009, con i moti di Urumqi, la capitale della Regione Autonoma del Xinjiang. Pechino di fronte a pacifiche contestazioni della sua autorità, ha reagito in ambedue i casi con una violenta repressione poliziesca. Le autorità cinesi hanno giustificato il loro operare affermando che: “non si tratta ne di un problema di religione, ne di un problema di diritti umani, ma dell'integrità territoriale della Cina”. Una integrità che sarebbe, a detta di Pechino, messa in pericolo da gruppi di teppisti istigati dai loro leader in esilio, il Dalai Lama nel caso dei tibetani e Rebiya Kadeer in quello degli uiguri, il cui obiettivo è scatenare le violenze con l'obiettivo ultimo di staccare le due regioni dalla Cina.